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DANIELE BARBARO, LA PRATICA DELLA PERSPETTIVA
pubblicata a Venezia nel 1568

JACOPO BAROZZI da VIGNOLA, LE DUE REGOLE DELLA PROSPETTIVA PRATICA  (con il commento di Egnazio Danti)
compilata intorno al 1545 e pubblicata postuma a Roma nel 1583

Sorvolando sulla nota questione per cui l'opera del Barbaro costituirebbe un plagio dell'allora inedito 'De prospectiva pingendi' di Piero della Francesca, il nostro interesse si concentra sulla quinta parte, delle nove di cui si compone l'intero trattato, "nella quale si espone una bella e secreta parte di prospettiva". Ma la trattazione del Barbaro delude le aspettative in quanto al momento di descrivere la costruzione dell'immagine anamorfica si limita a fornire l'esposizione di un metodo empirico basato sulla proiezione, tramite la luce solare o quella di una lanterna, di un cartone da spolvero su un piano che "fusse un parete, e la carta un altro, che si congiugnesse con la tavola, e facesse squadra".

Nella prima parte del libro, quella relativa all'esplicazione della prima regola del Vignola, vi è un paragrafo intitolato "Di quelle pitture che non si possono vedere che cosa siano, se non si mira per il profilo della tavola, dove sono dipinte", in cui si descrive un procedimento, del tutto aprospettico, di formazioni di immagini allungate da osservare di sbieco. Il Danti asserisce di aver appreso questo metodo da un pittore siciliano che aveva fama di prospettico eccellente: Tommaso Laureti. In effetti quello che descrive il Danti è un procedimento che non ha nulla a che fare con la prospettiva, è un metodo empirico evidentemente in uso a quei tempi e che ritroveremo successivamente in altri trattati.

GIOVANNI PAOLO LOMAZZO, TRATTATO DELL'ARTE DELLA PITTURA, SCULTURA ED ARCHITETTURA
pubblicato a Milano nel 1584

Nel capitolo XIX del Sesto libro, sotto il titolo "Modo di fare la prospettiva inversa che paia vera, essendo veduta per un solo forame", troviamo una descrizione relativa ad un procedimento per l'esecuzione di grandi disegni anamorfici. Mutuata dal 'portello dureriano' l'operazione presenta però un rovesciamento dei termini: il piano di rappresentazione si trova non più tra il disegnatore e l'oggetto da rappresentare, ma davanti ad essi. Purtroppo il trattato è privo di illustrazioni in quanto compilato, anzi dettato dal Lomazzo quando era ormai divenuto cieco; ciononostante la meticolosa descrizione ci permette di identificare il procedimento descritto con quello adoperato in seguito dal Niceron per l'affresco anamorfico del San Giovanni a Pathmos eseguito nel 1642 nel convento dei Minimi a Trinità dei Monti in Roma, al cui ritrovamento ho recentemente contribuito.

Con la figura di Leonardo da Vinci, a cavallo tra questo secolo e il precedente, lasciamo decisamente il campo delle supposizioni e delle ipotesi per approdare a quello delle certezze, in quanto sia i suoi appunti che alcuni suoi disegni dimostrano la perfetta acquisizione del principio anamorfotico. Un foglio del Codice Atlantico, il 35 verso-a, contiene due disegni anamorfici di Leonardo, rappresentanti la testa di un bambino e un occhio: tali disegni risultano inscritti in un fascio di linee, riconoscibile solo nell'originale, testimonianza della presenza di una costruzione geometrica alla base degli schizzi. La datazione approssimativa (1483-1518) pone comunque questi disegni in anticipo rispetto alle altre anamorfosi sinora conosciute.

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